Gabriele Albarosa
Facebook 28.06.2020
ARTURO PARISI 1955/58: UNIFORME E DIVISA
Pensieri condivisi in occasione di “Libera Uscita nr 5”.
Da incorniciare. Grazie, Arturo!
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Riprendendo la distinzione tra uniforme e divisa, va detto che a guidare è la prima, non la seconda.
Senza l’orgoglio dell’uniforme non c’è fascino della divisa che tenga.
Dire uniforme sta infatti a dire appartenenza, evocare un noi che sta dietro a ogni io.
Quel noi che ci impedisce di sentirci soli, anche quando siamo isolati.
Quel noi appunto che dà ad ognuno la forza per marciare impettito e l’orgoglio di sentirsi diverso.
Un noi che va oltre l’immediato e oltre il tempo.
Solo uno che a quindici anni ha imparato a marciare allineato e coperto può non sorprendersi se a sessanta in una sperduta stradina del Maine sente ancora il tamburo che segna il suo passo, fianco a fianco con i compagni della sua giovinezza.
Solo uno, come quelli del mio corso, il ‘55-‘58, il primo in assoluto dell’Esercito della nostra Repubblica, che, dopo decenni in “diagonale”, indossò nuovamente l’uniforme storica può capire cosa significhi immaginarsi dentro una storia lunga 233 anni, in colonna dentro una stessa “Long Gray Line”, il titolo del film che appunto in quegli anni il mitico John Ford dedicò a West Point.
Anche se in occasione dell’indimenticabile primo ritorno in Sardegna, il lattaio sotto casa, si chiedeva come mai Arturo Parisi fosse finito a Roma a fare il portiere seppure all’Excelsior di Via Veneto.
Senza l’orgoglio dell’uniforme, senza la forza del noi che mi sosteneva da dentro, anche la nostra bella divisa mi si sarebbe afflosciata nel petto come un palloncino colorato per una puntura di spillo.